giovedì 21 dicembre 2017

RE ARTÙ, LA VERA STORIA - Graham Phillips


Intorno agli anni '90 un certo Graham Phillips ipotizzò che il ciclo bretone si ispirasse a vicende e personaggi realmente esistiti e promise che egli stesso si sarebbe premurato di sviscerarli comunicandoci i risultati qualora avesse raggiunto un soddisfacente quantitativo di argomentazioni.
I primi risultati della sua indagine vennero pubblicati nel 1992 nel saggio “King Artur, the true story, il quale, malgrado l'omonimia del titolo italiano, non è il libro di cui parlerà questo articolo.
Sin dagli inizi optò per il metodo multidisciplinare, convinto che il limite maggiore dei suoi colleghi fosse sempre stato il non aver unito le forze. Decise quindi di incrociare le prove storiche, letterarie, mitologiche e archeologiche e giunse alla scoperta di indizi che fino a quel momento erano stati trascurati.

Ai precedenti ricercatori (e all'autore stesso) mancavano però tecnologie e nozioni che son diventate disponibili solo nel corso dell'ultimo ventennio.
Oggi la geofisica si è evoluta e possiamo contare su strumentazioni innovative, nuovi metodi di datazione, nuovi manoscritti e nuovi siti archeologici. Nel loro insieme questi sviluppi hanno permesso al Phillips di approfondire, sublimare e consolidare la propria tesi e pubblicarne la seconda parte, possibilmente quella definitiva

    Re Artù. La vera storia
Con questo saggio storico-letterario, pubblicato nei paesi anglofoni col titolo di The lost tomb of King Arthur, l'autore annuncia a tutte le genti - specializzate e non - che avrebbe finalmente identificato i luoghi, i personaggi e le vicende che durante la loro esistenza promossero la nascita di un mito, quello arturiano, tanto duraturo quanto proficuo, tanto appassionante quanto edificante. E anche tanto abusato.

Fu proprio a causa di questa fortuna che nel corso del Basso Medioevo il tema venne corrotto con interpolazioni dovute a volte all'ingenuità, altre alla malizia. Quest'ultimo fu il caso di autori quali Robert de Boron, Goffredo di Monmouth, i frati di Glastonbury (che manomisero i testi dello scrupoloso Guglielmo di Malmesbury) e, di conseguenza, Thomas Malory un paio di secoli più tardi

(Fig. 3)
Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri,
(traduzione italiana de Le Mort d'Arthur)

Vivendo nel XV secolo e scrivendo perlopiù da una prigione, Malory non aveva gli strumenti per distinguere i capitoli originali da quelli interpolati. Si ritrovò pertanto a consolidare la versione sbagliata della leggenda.

Il motivo per il quale lo consideriamo il maggior esponente del ciclo arturiano è essenzialmente uno: la coincidenza.
Nel 1485, infatti, la pubblicazione di Le Mort d'Arthur (Fig. 3) coincise con la recente installazione a Londra della prima stampa a caratteri mobili. Ciò permise all'opera di diventare il primo best-seller arturiano della storia nonché il secondo libro più stampato dopo la Bibbia: in Inghilterra la superò, addirittura.

Ma se da una parte gli autori citati poc'anzi corruppero il mito per doppi fini, dall'altra abbiamo anche frati che risposero alle razzie vichinghe dei secoli immediatamente successivi alla caduta dell'Impero Romano salvando tutto ciò che potevano del patrimonio letterario locale - l'ex Britannia romana -, tra cui anche i poemi gallesi su Artù. Raggrupparono i testi, li copiarono e li suddivisero per temi e volumi, favorendone la conservazione fino ai giorni nostri. Secondo il Phillips, la chiave di volta starebbe proprio in questi nuovi manoscritti. Dico nuovi” perché, pur risalendo all'Alto Medioevo, mai nessuno era andato a consultarli: vuoi perché non erano in molti ad aver anche solo pensato che Artù potesse ispirarsi ad una persona reale, magari conosciuta con un altro nome, vuoi perché l'opinione pubblica collocava Artù nell'Inghilterra orientale, non nel Galles.

Come dicevo,
grazie al lavoro certosino di questi uomini di Dio, Phillips poté consultare dei testi medievali nel XXI secolo, ritornare al nocciolo della storia e constatare che, come nelle versioni originali Morgana non era sua sorella e non era un'antagonista, allo stesso modo Uther, Artù e Ginevra erano soprannomi anziché nomi; Camelot non era mai stata chiamata così prima del XII secolo; Avalon era solo una delle tante isole-santuario sede di comunità femminili votate alla guarigione; Merlino non era un vero mago (ma va?) ed Excalibur non era la spada nella roccia.

Re Artù, la vera storia” è la cronaca di una minuziosa ricostruzione storica senza precedenti e senza pregiudizi in cui l'esposizione semplice non corrisponde necessariamente a contenuti semplicistici e in cui i vari temi sono affrontati col consueto metodo scientifico strutturato in tesi, antitesi e sintesi – una formula che lascia poco spazio ai dubbi.

Tuttavia, alla fine della lettura un dubbio rimane irrisolto: quella indicata dal Phillips sarà davvero la tomba di re Artù?

Sebbene
tutti gli indizi portino ad un preciso luogo e sebbene la sonda abbia riportato che effettivamente sottoterra c'è qualcosa, non è stato possibile scavare ed ottenere una risposta. Il punto incriminato sorge infatti su una proprietà privata che a sua volta sorge in un'area di monumentale interesse archeologico. Il mancato possesso delle autorizzazioni per gli scavi, in questo caso, comporterebbe non solo una multa, ma anche un paio d'anni di prigione.
Tra i vari scopi di questo saggio, dunque, c'è anche quello di
presentare una documentazione abbastanza valida da mettere in moto la burocrazia inglese e ottenere questa famosa autorizzazione. Per noi, gente comune, invece lo scopo è continuare a farci sognar... ehm... guardare al patrimonio culturale europeo da una nuova prospettiva.
Inutile specificare che l'acquisto è d'obbligo per ogni appassionato della materia di Britannia.
Voto: 4/5

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